Il film parla dell’Affare Dreyfus, un soggetto che è rimasto nella mia testa per molti anni. In questo vasto scandalo, probabilmente il più grande della fine del XIX secolo, si intersecano errori giudiziari e antisemitismo. Per dodici anni, l’Affare Dreyfus divise la Francia, portando scompiglio anche nel resto del mondo. Ad oggi è uno dei simboli dell’ingiustizia politica e di cosa si possa arrivare a fare in nome dell’interesse nazionale.
Roman Polanski
L’affare Dreyfus come un appassionante thriller ottocentesco zeppo di personaggi e di dettagli che in poco più di due ore resuscita non solo uno dei casi più intricati e rivelatori della storia moderna europea, ma tutta un’epoca. Ovvero una mentalità, una società, un assetto tecnologico e morale sicuramente lontanissimo ma per certi versi incredibilmente vicino a quello attuale. […] Si sapeva che in questo progetto, dalla lunga gestazione, Polanski aveva visto echi e riflessi di molte delle sue vicende personali. Non ci si aspettava che tanto coinvolgimento producesse un film così impeccabile, controllato, equidistante. […] Il punto di vista, dall’inizio alla fine, è quello del colonnello Picquart (Jean Dujardin), il nuovo capo dei servizi di intelligence, ex superiore del capitano Dreyfus, blandamente antisemita come la stragrande maggioranza dei militari francesi all’epoca, che inizia ad avere i primi dubbi sulla sua condanna quando scopre fino a che punto sia sciatta e vulnerabile la gestione dei dossier. Per poi individuare incoerenze, smagliature e addirittura prove false fabbricate ad arte contro il capitano, colpevole solo di essere ebreo. Dreyfus (un irriconoscibile Louis Garrel) appare pochissimo, all’inizio e alla fine, quando lo condannano e lo deportano sull’Isola del Diavolo, poi quando lo scagionano e torna in Francia, riabilitato ma non proprio vincitore come dimostra il beffardo epilogo. Ma il grosso di questo film che ha il passo, la luce, i colori, verrebbe voglia di dire gli odori dell’epoca, è costituito dalle indagini di Picquart e dai suoi scontri con gli ‘esperti’ (fantastico Mathieu Amalric grafologo che non crede letteralmente ai suoi occhi) e con lo stato maggiore di un esercito che era tutta la sua vita, ma di cui scopre poco a poco tutto il marcio e il cinismo. Anzi forse si rimpiange un poco che non venga dato maggior spazio ai rapporti di Picquart con Emile Zola, che avrebbe scritto il famoso J’accuse, e con il futuro primo ministro Georges Clemenceau, che lo sostengono nella sua battaglia. Mai forse l’ipocrisia nascosta dietro la grandeur era stata dipinta con maggior forza. Anche perché Polanski ha avuto l’ostinazione e l’intelligenza di girare il film non in inglese, come era previsto all’inizio, ma in francese. Mobilitando, negli innumerevoli ruoli di contorno, mezza Comédie Française. Per dare alla vicenda e ai suoi protagonisti una verità che sarebbe semplicemente evaporata nell’eterno, insopportabile inglese delle grandi produzioni internazionali.
Fabio Ferzetti