Non c’è immagine del giovane Jett Rink in Giant, non c’è sua apparizione, sua fuga, suo sguardo sbieco, suo ritrarsi in penombra che non sembri già predisposto in funzione del mito. Jimmy Dean, cappello calato sugli occhi, allunga le gambe sul cruscotto della macchinascoperta. Jimmy Dean appoggiato allo stipite della porta, questa volta il cappello getta un’ombra su metà del viso, esasperando il rilievo delle labbra socchiuse a reggere la sigaretta. Jimmy Dean corre, solo come un giovane coyote, su uno sfondo vuoto di deserto – come ilgiovane coyote che Liz Taylor vede, annuncio di terra selvatica, dal finestrino del treno su cui ha appena consumato la sua notte di nozze. Non è solo luce postuma, tragedia americana dell’eroe giovane e bello – e killed in action (su una strada della California, a riprese non ancora ultimate). George Stevens conduce il ragazzo selvaggio dell’Actors Studio a lavorare sui margini, sulle soglie di un’epopea ranchera che non è la sua. Sulla soglia della grande casa di Reata celebra il suo successo e l’inizio della fine. Dall’orma del piedino della dea, di Leslie/Liz che Jett Rink desidera senza averne il coraggio, sono uscite bolle di petrolio. Ci vuole tempo e lavoro, e lunghifuoricampo mentre i protagonisti sono impegnati a collaudare il proprio matrimonio, ma infine il petrolio erompe, lo inzuppa. Jett Rink sarà un uomo solo, ma un uomo ricco. Esibisce trionfante la propria faccia unta e nera – come la faccia di Accattone sporca di sabbia, è l’annuncio d’un destino, una ridente maschera tragica. Questa scena magnifica è il displuvio del film, dove Giant risplende per quel che è: un capolavoro mancato.
Stevens sa mettere in scena come pochi le dinamiche familiari, il loro funzionamento affettivo ed economico. Come mostrano le sue commedie anni Quaranta (Un evaso ha bussato alla porta, Molta brigata vita beata), è capace di raccontare, accarezzando i dettagli, quel che accade nelle case. La sua Reata, un gotico americano dai colori schiariti, sembra l’eccentrico prelievo da un quadro di Hopper –intorno non c’è il New England ma il rovente nulla texano. Giant ha molti meriti, che non gli impediscono di diventare una ridondante sagasui vecchi e i giovani, la rete narrativa più fitta ma meno tesa, il melodramma blandamente delegato alla causa civile e antirazzista; non aiuta il trucco che di colpo deve aggiungere a tutti vent’anni. Il gigante fragile, l’innocenza americana ormai corrotta dal petrolio, ha quella terribile stempiatura posticcia. Sì, dispiace che siano queste le ultime immagini che il cinema conserva di lui. Ma così è andata questa vita (di Jett Rink, di Jimmy Dean).
Paola Cristalli