Elvis
@ Arena Puccini(USA-Australia/2022) di Baz Luhrmann (159')
Regia: Baz Luhrmann
Interpreti: Tom Hanks, Austin Butler, Luke Bracey, Dacre Montgomery, David Wenham, Olivia DeJonge
Origine e produzione: USA, Australia / Baz Luhrmann, Gail Berman, Catherine Martin, Patrick
McCormick, Andrew Mittman, Schuyler Weiss, Bazmark Films, Roadshow Entertainment, The Jackal
Group, Whalerock Industries
Durata: 159’
Uno spaccato della vita di Elvis Presley, icona del rock'n'roll, lungo tre decenni, segnati dal rapporto che la star aveva con il manager Tom Parker.
“ ‘Senza di me Elvis non sarebbe mai esistito’. La voce-off del colonnello Parker di Tom Hanks ricrea la sua immagine del celebre cantante statunitense. Può essere la visione dominante, ma invece è una delle tante che s’incrocia con il nuovo strabordante, incontrollato, fiammante nuovo film di Baz Luhrmann realizzato a nove anni da Il grande Gatsby. È il film della vita del cineasta australiano? Forse no, ma è un cinema che pensa in grande. Non si ferma al biopic. Racchiude vita e mito e immaginario su quello che molti critici musicali hanno definito il ‘più grande uomo di spettacolo del 20° secolo’ morto a 42 anni il 16 agosto 1977. […]
La musica s’impossessa del corpo di Elvis. Lì sul palco, con il suo inconfondibile modo di muoversi, di sprigionare erotismo, di mettersi al centro ogni volta del ‘più grande spettacolo del mondo’. […] Elvis è l’illusione di una magia di Méliès ma anche il corpo di Forrest Gump che corre nel tempo con la sua musica. Ci sono le origini, il quartiere nero dove è cresciuto, il rapporto con il padre e la madre e la moglie Priscilla. Poi il palco, le mutazioni nel corpo horror del rock tanto che era stata fatta una petizione per vietare la sua presenza in tv.
Le luci, l’acqua delle fontane, il volto di Elvis che gira dentro una roulette come se fosse un 45 giri. Luhrmann si sbarazza di cinema e tv. Lo mostra non solo come se fosse ancora vivo, ma appena con qualche segno del tempo che passa tra gli anni ’50 e i ’70. Forever Young. Solo il cineasta australiano poteva farlo esplodere in un cinema che ha la musica nel sangue dove Elvis è la metamorfosi cinematografica (definitiva?) del campione di ballo Scott Hasting di Ballroom. In dissolvenza c’è la storia degli Stati Uniti dei due decenni con gli omicidi di Martin Luther King, Bob Kennedy e Sharon Tate che diventano poi allucinazioni soggettive, in un cinema che si scompone di continuo, che usa split-screen e divide lo schermo in tre parti, perché questo film potrebbe essere ancora troppo piccolo per mostrare una figura gigantesca. Luhrmann si butta nel vuoto e per lui l’unico modo per raccontare Elvis è quello con cui Orson Welles si è doppiato in Charles Foster Kane in Quarto potere. Gli oggetti fanno da filtro, sono prismi. La leggenda, come in Romeo + Giulietta di William Shakespeare, torna per un attimo in carne ed ossa o come in un sogno ma poi si trasforma ancora, in quei colori accesissimi, dove la vita, il set, lo spettacolo sono la stessa cosa, come nell’immagine offerta da Elvis e il padre dopo la morte della madre.
Non c’è equilibrio. Ma chi se ne importa. Anzi è proprio nello squilibrio l’enorme bellezza del film. L’imponenza, l’esplosione di Elvis è proprio qui. Il film si mangia Elvis. Elvis si mangia il film. Luhrmann lo mostra come se fosse già un mito, con il pubblico femminile che lo adora come una divinità che torna sulla terra nel tempo del film, per mostrarsi come nella sua tenuta di Graceland o in un museo (vero, immaginario) su di lui nel mondo. Solo James Mangold con Quando l’amore brucia l’anima - Walk the Line era arrivato a tanto così da resuscitare Johnny Cash. Il suo bellissimo film ha un impianto più tradizionale. Nel cinema di Luhrmann di classico non c’è più nulla perché non c’è mai stato nulla. L’inquadratura superflua e necessaria sono la stessa cosa. Vita, morte, resurrezione di un cinema che si riflette su Elvis. L’unico film possibile su di lui. Immenso come lui.”
Simone Emiliani, “Sentieri Selvaggi”